sabato 28 novembre 2009

Fra le righe... #2


Ed eccoci ad un altro appuntamento con  le letture di questi giorni... le mie, ovviamente.
Questa volta tocca a Lawrence Lessig, un giurista americano membro anche del Creative Commons, che ci parla dell'attuale cultura del diritto d'autore, meglio conosciuto forse come copyright, che risale a parecchie ere geologiche fa, informaticamente parlando, e di come la si potrebbe rivedere alla luce della tecnologia odierna. Ma voglio far parlare lui...


L'ispirazione per questo volume nasce dalle “guerre del copyright”, un'espressione che per le persone di buon senso non indica la “guerra” al diritto d'autore “sferrata” dai “pirati”, ma piuttosto la “guerra” alla “pirateria”, la quale “minaccia” la “sopravvivenza” di determinate industrie rilevanti.
Anche questa guerra ha un obiettivo importante. Il diritto d'autore, almeno dal mio punto di vista, riveste un'importanza fondamentale per una cultura sana. A patto che venga dosato correttamente, incentiviamo la produzione di nuove, meravigliose opere che altrimenti non verrebbero prodotte.


Come tutte le guerre metaforiche, però, le “guerre del copyright” non sono conflitti in cui sia veramente in gioco la sopravvivenza. O perlomeno non riguardano la sopravvivenza di un popolo o di una società, ma quella di determinate aree di business, o per meglio dire di determinati modelli di business. Pertanto dobbiamo tenere a mente gli altri valori o gli altri obiettivi su cui tale offensiva potrebbe incidere. Dobbiamo assicurarci che essa non costi più di quanto vale. Dobbiamo assicurarci che sia una guerra che possiamo vincere, o meglio che possiamo vincere ad un prezzo che siamo disposti a pagare.
Io ritengo che sia una guerra che non dovremmo combattere. E non perché pensi che il diritto d'autore non sia importante. Piuttosto, credo nella pace perché i costi di questa guerra superano enormemente qualunque beneficio, perlomeno tenendo conte delle modifiche che si potrebbero apportare all'attuale normativa sul copyright per porre fine a questa guerra e, al tempo stesso, offrire agli artisti e gli autori la tutela che qualunque sistema di diritti d'autore dovrebbe garantire.
In passato ho cercato di promuovere una visione pacifica ponendo l'enfasi sui costi associati a questa guerra all'innovazione, alla creatività e, in ultima analisi, alla libertà. Ne Il futuro delle idee,
il mio scopo era difendere le industrie che non vedono la luce per timore degli assurdi inconvenienti sollevati dall'attuale regime del diritto d'autore. In Cultura libera, mi sono occupato delle forme di espressione e libertà creativa che vengono ostacolate dall'approccio estremista basato sulla difesa di un regime del copyright studiato per un era tecnologica radicalmente diversa da quella attuale.

Tuttavia, ho finito di scrivere Cultura libera proprio quando è nato il mio primo figlio. E nei quattro anni che sono passati da allora il mio punto di vista -ed i miei timori- riguardo a questa guerra sono cambiati. Non metto in dubbio le preoccupazioni che nutrivo rispetto all'innovazione, alla creatività ed alla libertà. Esse, però, non mi tengono più sveglio di notte. Adesso mi preoccupo per gli effetti che questa guerra sta sortendo sui nostri ragazzi. Come li sta cambiando? Chi li sta facendo diventare? Come sta cambiando la loro visione di un comportamento normale e di buon senso? Che cosa significa per una società il fatto che gli esponenti di un intera generazione vangano allevati come criminali?
Non si tratta di una domanda inedita. In realtà è la questione che l'ex direttore della Motion Picture Association of America, il compianto Jack Valenti, pose ripetutamente mentre combatteva quella che egli stesso definiva una “guerra anti-terrorista” contro la “pirateria”. E la domanda che lanciò al pubblico riunito ad Harvard la prima volta che io e lui dibattemmo la questione. Nella sua brillante e avvincente dichiarazione iniziale, Valenti rievocò un altro discorso che aveva pronunciato poco tempo prima presso la Stanford University, in cui il 90% degli studenti aveva confessato di scaricare illegalmente da Napster. Il relatore aveva chiesto ad uno studente di giustificare questo “furto”. La sua risposta era stata semplice: è vero, potrebbe trattarsi di un furto, ma lo fanno tutti. Come può essere sbagliato? A quel punto Valenti aveva chiesto ai docenti della Stanford che lo avevano invitato: che cosa state insegnando a questi ragazzi? “Quale genere di piattaforma morale supporterà questo giovanotto nel prosieguo della sua vita?”.
Non era questa la domanda a cui ero interessato nel contesto di quel dibattito. Mi misi a blaterare riguardo agli artefici della Costituzione statunitense, agli incentivi e alla limitazione dei monopoli.
La domanda di Valenti, però, è esattamente quella che mi interessa adesso: “Quale genere di piattaforma morale supporterà questo giovanotto nel prosieguo della sua vita?”. Per me, “questo giovanotto” rappresenta i miei due figli. Per voi, potrebbe trattarsi di vostra figlia o di vostro nipote. Per tutti noi però, sia che abbiamo figli o meno, quella di Valenti è esattamente la domanda che dovrebbe preoccuparci maggiormente. In un mondo in cui la tecnologia richiede a noi tutti di elaborare e diffondere le opere creative in modo diverso da come accadeva in precedenza, quale genere di piattaforma morale supporterà i nostri ragazzi, considerando che il loro comportamento comune viene considerato un crimine? Che tipo di persone diventeranno? Quali altri crimini considereranno naturali?
Valenti pose questa domanda per motivare il legislatore -e chiunque altro fosse disposto ad ascoltare- a sferrare una guerra sempre più efficace contro la “pirateria”. Io la pongo per motivare chiunque abbia voglia di ascoltare ( ed il legislatore, indubbiamente, non rientra in questa categoria) a riflettere su un'altra domanda. Che cosa dovremmo fare se questa guerra contro la “pirateria”, così come la vediamo oggi, non potesse essere vinta? Che cosa dovremmo fare se avessimo la certezza che in futuro i nostri figli, ed i figli dei nostri figli, faranno ricorso ad una rete digitale per accedere a qualunque contenuto desiderino ogni volta che vogliano? Che cosa dovremmo fare se sapessimo che in futuro il controllo assoluto sulla distribuzione delle “copie”, semplicemente, non esisterà?
In un mondo di quel tipo, dovremmo continuare a replicare il sacrificio rituale di questo o quel ragazzo colto a scaricare contenuti? Dovremmo continuare ad espellere studenti dalle università?
A minacciare di intentare delle cause civili multimilionarie? Dovremmo incrementare il vigore con cui facciamo guerra a questi “terroristi”? Dovremmo sacrificarne una decina o un centinaio rinchiudendoli in prigione (dato che i loro atti, in base alle leggi attuali, sono un crimine), in modo che gli altri imparino ad abbandonare un comportamento che oggi attuano sempre più di frequente?
Dal mio punto di vista, la soluzione al problema di una guerra che non possiamo vincere non è quella di sferrarne una ancora più vigorosa. Almeno nei casi in cui non si tratta di una guerra per la sopravvivenza, la soluzione è quella di optare per la pace, e successivamente di trovare dei modi per raggiungere senza alcuna guerra i fini a cui mirava il conflitto. La criminalizzazione di una intera generazione è un prezzo troppo alto da pagare, qualunque sia il fine ( o quasi). Indubbiamente è un prezzo troppo alto da pagare per un sistema del diritto d'autore studiato più di una generazione fa.
Questa guerra è particolarmente insensata in quanto esistono mezzi pacifici per raggiungere quasi tutti i suoi obiettivi, o quantomeno tutti quelli legittimi. Gli artisti e gli autori devono essere incentivati a creare. Siamo in grado di studiare un sistema che faccia esattamente questo, senza criminalizzare i nostri ragazzi. Nell'ultimo decennio alcuni dei maggiori esperti statunitensi hanno svolto un lavoro straordinario, dalla mappatura allo studio di alternative al sistema in vigore.
Tali alternative conseguirebbero gli stessi fini a cui mira il diritto d'autore senza trasformare in criminali coloro i quali, naturalmente, fanno ciò che le nuove tecnologie li incoraggiano a fare.
È ora che prendiamo sul serio tali alternative. È ora che smettiamo di sprecare le risorse dei nostri tribunali, dei nostri agenti di polizia e delle nostre università per punire un comportamento che non dobbiamo punire per forza. È ora che smettiamo di sviluppare strumenti che non fanno altro che minare la straordinaria collettività ed efficienza di questo network. È ora che dichiariamo una tregua e studiamo un approccio migliore. E studiare un approccio migliore significa ridefinire il sistema legislativo che chiamiamo copyright, o diritto d'autore, in modo tale che il comportamento diffuso e normale non venga definito criminale.


Tratto da: Remix- Il futuro del copyright (e delle nuove generazioni)- Lawrence Lessig - ETAS

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