mercoledì 24 marzo 2010

Lavoro? O schiavitù?

Qualche giorno fa ho conosciuto una, per motivi anagrafici, anziana signora. È successo per caso, ero andato per intervistare la figlia ed invece ho scoperto la madre. Donna molto particolare perché, 50 anni fa, ha percorso le rotte dell'emigrazione nazionale al contrario e si è trasferita, seguendo il marito, da Genova in Sicilia. Il marito era un imprenditore del settore agrumicolo, nella Lentini degli anni caldi delle rivendicazioni sindacali dei braccianti. La nostra regione era ancora (ma è mai cambiata?) governata secondo le leggi del feudalesimo, con una concezione del lavoro molto simile alla schiavitù.
Mi raccontava di un nobile, proprietario anch'egli di giardini di arance, che girava a cavallo brandendo una frusta. Indovinate a cosa serviva? Bravi! A frustare gli operai. E mentre raccontava potevi leggere nei suoi occhi lo stupore che aveva provato nel vedere la passività col quale molti di questi lavoratori accettavano la loro condizione di schiavi. Mi ha raccontato di un operaio dell'azienda del marito che, quarant'anni dopo, è andato a trovarla. E che, ancora oggi, ricorda con nostalgia quegli anni perché, al contrario di molti suoi amici, aveva lavorato in una azienda dove "il padrone" dava del lei agli operai e non usava punizioni corporali o insulti come i suoi colleghi. Un imprenditore "illuminato" che aveva mostrato ai suoi operai una concezione del lavoro intrisa di dignità e di rispetto reciproco.
Mentre lei continuava a raccontare episodi di quella Sicilia lontana ormai mezzo secolo, io pensavo: e oggi? Siamo sicuri di esserci lasciati alle spalle quegli anni?
Mmmhhh...
Situazione attuale.
Per quel che ne so non esiste più la frusta (per quel che ne so), ma esistono ancora molte delle dinamiche di allora. Cos'è la precarietà se non una frusta che, non lasciando segni sulla pelle, fa molto più male? Come si può vivere, progettare un futuro, sposarsi o far figli quando l'unica certezza che si ha è che "del diman non v'è certezza"? Quando si vive la condizione di precario del lavoro ci si trova a subire un ricatto continuo e subdolo, quello del rinnovo del contratto, che rende il lavoratore prono a qualsiasi richiesta e quindi simile per condizione ad uno schiavo. Lo schiavo civilizzato del terzo millennio.
Non solo. Spesso questo schiavo moderno ha ottenuto il posto di lavoro per l'intercessione del "signorotto" di turno, ovvero il politico "amico".
Ed il cerchio si chiude.
Quello che stiamo vivendo poi in questi giorni, va ancora oltre.
La crisi favorisce il riaffermarsi della concezione ottocentesca del lavoro, dove il lavoratore deve già essere grato se gli viene concessa la possibilità di lavorare.
La minaccia di essere sostituito con un altro "lavoratore bisognoso" è come una frusta che ti colpisce continuamente, torturando i pensieri, e spaventandoti a morte. E sei disposto anche a lavorare in condizioni terribili, dove la sicurezza è una parola vuota usata anch'essa come minaccia. Dove se chiedi qualche diritto sei solo un rompicoglioni che fa casino. E ti conviene non alzare troppo la voce altrimenti vai a casa.

Mentre la signora continuava a raccontare questi pensieri invadevano la mia mente. Avevo voglia di dirle che oggi ben poco è cambiato. Sono cambiate le forme ma la sostanza è ancora la stessa.
Ma invece fu lei a gelarmi con una domanda.
Perché non vi ribellate? Perché siete tutti così rassegnati?
Non ho saputo rispondere...

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